Caricamento in corso

Straining: forma di violenza psicologica sul luogo di lavoro

Nell’ambito clinico e anche – più recentemente – nel panorama giuridico (prevalentemente giurisprudenziale ma anche normativo) si sono delineate figure differenti e maggiormente specifiche
per descrivere le varie situazioni di conflittualità lavorativa che ledono il lavoratore, anche se spesso
viene utilizzato il concetto di mobbing quale espressione per definire ogni situazione di sofferenza e
difficoltà sul luogo di lavoro. Una tra queste è lo straining, categoria mutuata anch’essa dalla scienza medica e così sintetizzabile: mentre il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità metodica, persistente in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo, lo straining, invece, individua una condotta vessatoria caratterizzata da una azione di molestia unica ed isolata, che tende a far cadere la propria vittima in una situazione di stress forzato, i cui effetti negativi sono duraturi nell’ambiente lavorativo. In altre parole, nello “straining” non vi è la “continuità” delle azioni vessatorie tipica del mobbing. Lo straining è quindi caratterizzato dall’istantaneità dell’evento: il comportamento scorretto del datore di lavoro si esaurisce in un unico episodio isolato che genera un disagio nel lavoratore, oppure è costituito da più azioni tra loro scollegate. Il termine straining deriva dall’inglese “to strain”, e letteralmente può essere tradotto con il significato di “tendere”, “mettere sotto pressione”, “stringere”. Il termine è stato coniato dal dottor Harald Ege, studioso della Psicologia del lavoro ed autore di numerosi scritti in materia, il quale, durante numerosi colloqui con vittime di soprusi e violenze psicologiche sul luogo di lavoro, si rese conto che si trattava di soggetti che erano stati sottoposti a trattamenti iniqui e discriminanti, che, però, a differenza delle condotte mobbizzanti, non erano caratterizzati dalla continuità e ripetitività. Studiando tale fenomeno, quindi, si sentì l’esigenza di definire questo diverso tipo di molestie, per evitare che i soggetti coinvolti, ritenendo di essere oggetto di mobbing, rimanessero, invece, privi di tutela giuridica per la mancanza oggettiva di una frequenza idonea di azioni ostili attive, ritenute necessarie per poter accedere alla tutela prevista per il mobbing. Il fenomeno dello straining è stato recepito dalla Giurisprudenza italiana con la famosa sentenza del Tribunale del lavoro di Bergamo, del 20 giugno 2005, ove il Tribunale ha concluso che per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso di gravissimo demansionamento, di marginalizzazione, o di svuotamento di mansioni). È innegabile che una persona isolata e professionalmente svilita per un lungo periodo di tempo, soffra intensamente a livello di autostima, di socialità, di qualità di vita, riportando un danno esistenziale, relazionale e professionale poiché il lavoro non rappresenta soltanto una fonte di guadagno, ma anche il mezzo attraverso il quale esprimere la propria personalità (artt. 2, 3 e 4 Cost.). Questo implica il dovere per il datore di astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (straining).

Share this content: